(1) Alfano: restituire ai cittadini il diritto di scegliere i candidati

L’attuale legge elettorale va modificata, a prescindere dalla decisione della Consulta sul referendum. E’ la linea del Pdl, che torna a lavorare a pieno regime dopo la breve parentesi natalizia, e che è emersa al termine dell’avvio dei “tavoli” su riforma elettorale, liberalizzazioni, lavoro e Unione europea.

A spiegare l’esito dei primi incontri, che si sono svolti in via dell’Umilta’, e’ il segretario Angelino Alfano che in una nota afferma: “è stato dato il via, dalle nove di questa mattina, ai tavoli di lavoro del Pdl, incentrati sui quattro filoni principali: legge elettorale, liberalizzazioni, rapporti con l’Europa e mercato del lavoro. Nel corso del tavolo sulle riforme istituzionali e sulla legge elettorale, e’ emersa l’assoluta convinzione di mantenere fermo il principio bipolare che consente ai cittadini di scegliere il presidente del Consiglio, la maggioranza e il relativo programma elettorale”.

“In particolare – prosegue Alfano – in attesa della decisione della Consulta sul referendum il Pdl, unitariamente, ha sottolineato la necessita’ di modificare in ogni caso l’attuale legge elettorale al fine di restituire, ai cittadini, il diritto di scegliere i propri candidati. I lavori, infine, proseguiranno nel piu’ breve tempo possibile per pervenire, in tempi utili, a una proposta da presentare al Parlamento”.

Bondi: tavoli lavoro, iniziativa positiva

”Anche con le riunioni dei tavoli di lavoro che hanno preso avvio oggi, grazie alla decisione del segretario politico Angelino Alfano, il Pdl conferma il proprio profilo di governo, la propria identita’ liberale e riformatrice, nonche’ il carattere attivo e propositivo del proprio sostegno al governo tecnico”. Lo afferma Sandro Bondi, coordinatore del Pdl.

(2) – Noi e la Lega, solo uniti si vince

L’annunciato ripensamento leghista sul caso Cosentino non cala alcuna “pietra tombale” sul cosiddetto “asse del Nord”. Vi sono scelte che attengono alla tattica e scelte strategiche, queste non cambiano col mutare di quelle. Se non altro, perché non sono nella disponibilità della politica di partito. Una ragione c’è, se l’alleanza di centrodestra, finita in pezzi all’inizio del 1995, si è successivamente ricomposta in una sorta di falange macedone, contro venti e maree.

Tale ragione deriva dalla sostanziale unità degli interessi rappresentati, intolleranti di divaricazioni radicali. Uniti si vince, divisi si perde: contro l’evidenza di questo calcolo elementare non c’è “pietra tombale” che tenga.

Si capisce che oggi la Lega cerchi raggi di fortuna nell’opposizione al governo dei professori, ciò che la conduce alla riscoperta della sua originale diversità di forza “tellurica”, legata al territorio da cui è scaturita. Quando la tempesta infuria e travolge antiche certezze, è legittimo approntare scialuppe di salvataggio per il caso di naufragio.

Ma l’unità prepolitica del blocco sociale di riferimento, fatto di un idem sentire nelle cose che contano, oltre che di interessi comuni, non scompare quali che siano le possibili variazioni del quadro politico, o storico, in cui si colloca. In Lombardia, Padania, e Italia tutta, l’unità della rappresentanza partitica dell’opinione di centrodestra si impone di necessità in vista degli appuntamenti elettorali, per tornare a vincere.

Libero ognuno di fare il suo giro di walzer, sapendo che tornerà l’ora di marciare uniti. Uniti, ben s’intende, nella propria famiglia politica allargata: unica, come è unico il bacino elettorale a cui attingono le diverse espressioni del centrodestra. Un conto è un qualche giro di walzer, altro sarebbe un cambiamento di campo: gli elettori non potrebbero riconoscervisi e non mancherebbero certo di una casa comune in cui ritrovarsi.

(3) – L’Europa faccia qualcosa anche per noi

“L’Italia ha accettato durissimi sacrifici. Ora l’Europa e la Germania ci dia qualcosa in cambio”. Le parole di Mario Monti al Die Welt sembrano un appello quasi disperato. Una voce dal sen fuggita.

Dopo aver precisato che il suo compito “è di far sì che l’Italia sia sempre più simile alla Germania”, il premier avverte che, senza nulla in cambio, “potrebbe scatenarsi un’ondata di populismo antieuropeo”. Monti ha il merito di mettere finalmente il dito nella piaga, anche se non comprendiamo il termine “populismo”.

Nessun paese ha aderito ai principi europei senza se e senza ma come l’Italia. Nessuno – lo dice lo stesso Monti – ha accettato disciplinatamente tasse e sacrifici come noi. Da nessun’altra parte un governo legittimamente in carica ha accettato di farsi da parte per puro senso di responsabilità. Dov’è quindi il populismo?

E poi perché dovremmo germanizzarci a scatola chiusa? Altri paesi e governi utilizzano l’euro come campo di battaglia dei loro interessi economici e politico-elettorali: proprio Germania e Francia sono esempi stranoti. Da noi accade il contrario. Rischiamo di diventare i portatori d’acqua di Berlino e di Parigi, se non vediamo qualche beneficio concreto. I sondaggi sono sempre più eloquenti: vogliamo restare in Europa, ma starci con pari diritti.

Il Corriere della Sera si domanda se l’Italia, oltre che di se stessa, debba aver paura appunto dell’Europa. Il Wall Street Journal arriva ad ipotizzare che per i maggiori paesi europei (e tra questi mette anche l’Italia) sarebbe meglio uscire dall’euro entro tre anni, ancorando le rispettive valute, dal marco alla lira, all’attuale moneta comune. Perfino Sergio Marchionne, sul Guardian, invita Europa e Germania a fare di più per risolvere la crisi dei debiti: “State giocando col fuoco. Si vende sempre meno e gli investimenti fuggono”.

Insomma, accertato che l’Europa non è la Caritas, se ognuno difende i propri interessi anche noi abbiamo il diritto, dopo tanti sacrifici, a dei risultati. Ora: non per la prossima generazione o quella dopo.